Cum Patior. Meditare e risvegliare la capacità di “sentire con”

Premessa

Non nutrire aspettative. È questo è uno degli aspetti centrali del cammino meditativo. Senza aspettative si sperimenta e si vive la pratica con maggiore libertà e compassione, privi di attese e desideri.

Nel corso del cammino meditativo si sperimentano comunque, in modo spontaneo e soggettivo, una serie di “effetti”, ottenimenti, che solo con la costanza e con uno spirito “puro” si possono raggiungere.

Tra i vari effetti si potrà notare un maggior senso di compassione verso gli altri.

L’idea di compassione viene talvolta fraintesa, interpretata in modo errato e negativo, soprattutto nella cultura occidentale. Quando infatti si parla di compassione  si rischia di cadere nell’immagine comune che tratteggia questo sentimento come “pena”, “pietà” verso qualcuno. In questo senso la compassione viene provata partendo dal considerarsi in qualche modo superiore e differente all’altro.

Nel cammino meditativo (associato in particolare alle tradizioni contemplative orientali) a cui ci riferiamo, provare compassione significa “soffrire con”, “sentire con”, dal latino “cum patior”.

Meditando senza aspettative, ma con regolarità, nutrendo pace e calma interiore possiamo risvegliare il sentimento di compassione. Persino le ricerche dello psicologo e psichiatra Richard J. Davidson hanno dimostrato l’accentuarsi del sentimento di cum patior nei meditanti.

Gli studi portati avanti dal team di Davidson hanno evidenziato il nesso tra aumento della compassione e maggiore attivazione di alcune aree del cervello. È soprattutto la corteccia prefrontale ventromediale che viene stimolata, ovvero quella parte del cervello coinvolta nella regolazione emotiva. Di contro, è stata registrata una diminuzione dell’attività dell’amigdala.

Nella tradizione buddhista riveste un ruolo centrale il principio e il sentimento di compassione, che in lingua pali viene chiamata Karuņā. Da questa prospettiva, la compassione nasce poiché non vi è differenza fra gli esseri viventi, bensì unità.  Karuņā nel buddhismo è accompagnata dalla saggezza (Prajñā), in modo che la stessa compassione possa generare buoni frutti.

La personificazione della compassione è espressa dal Bodhisattva Avalokitesvara, descritto nel Sutra del loto come “colui che guarda con gli occhi della compassione e ascolta profondamente il pianto del mondo”.

Anche senza abbracciare un cammino buddhista, per il tramite della pratica meditativa possiamo alimentare la compassione nella forma più pura, non dicotomica, in cui è assente la distinzione tra “io” e “l’altro”.

Mi piace concludere questo scritto citando il Quarto dei Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza diffusi da Thich Nhat Hanh prima in Vietnam, poi in tutto il mondo.

Il 4° Addestramento è la “Consapevolezza della sofferenza”:

Consapevoli che guardare in profondità la natura della sofferenza può aiutarci a sviluppare la comprensione e la compassione, siamo determinati a tornare a noi stessi, a riconoscere, accettare, abbracciare e ascoltare la sofferenza con l’energia della consapevolezza. Faremo del nostro meglio per non fuggire dalla nostra sofferenza né coprirla con consumi compulsivi; praticheremo invece la consapevolezza del respiro e la meditazione camminata per osservare in profondità le sue radici. Sappiamo che solo comprendendo le radici della sofferenza possiamo trovare la via che conduce alla sua trasformazione. Una volta compresa la nostra sofferenza personale, saremo in grado di comprendere quella degli altri. Ci impegniamo a trovare il modo – attraverso contatti personali, telefonici, informatici, audiovisivi e altri – per stare con coloro che soffrono aiutandoli così a trasformare la sofferenza in compassione, pace e gioia.

Silvia C. Turrin

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